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  • Emirati Arabi, finalmente attiva la centrale nucleare di Barakah

    Dopo oltre un decennio dall’avvio del programma nucleare degli Emirati Arabi Uniti, nelle score settimane è stata messa in servizio la centrale nucleare di Barakah, la prima nel mondo arabo. L’impianto, che si trova sul Golfo Arabico nella regione di al-Dhafra, a circa 280 km da Abu Dhabi, ha avuto un costo di 24,4 miliardi di dollari ed è stato realizzato da un consorzio guidato dalla Emirates Nuclear Energy Corporation (ENEC) e dalla Korea Electric Power Corporation, la più grande società di energia nucleare della Corea del Sud. La centrale nucleare di Barakah è dotata di quattro reattori APR1400 con una capacità pari a 5.600 MW e in grado di generare fino al 25 per cento dell’elettricità degli Emirati Arabi Uniti, impedendo così il rilascio di 21 milioni di tonnellate di emissioni di anidride carbonica ogni anno. “È un momento storico per il Paese - ha dichiarato Khalifa bin Zayed al-Nahyan, presidente degli Emirati Arabi Uniti - che si sta muovendo verso un futuro energeticamente sostenibile”. La centrale di Barakah si inserisce nel contesto della Energy Strategy 2050, la politica in campo energetico che mira a fornire alla popolazione degli Emirati energia pulita, a basso costo e sicura, tutelando allo stesso tempo l’ambiente. Gli Emirati Arabi Uniti hanno inoltre più volte ribadito che il loro programma nucleare è volto esclusivamente a un uso civile.

  • In Afghanistan nuova capacità rinnovabile

    Oltre alla lunga e travagliata ricerca di una “normalità” politico-sociale, l’Afghanistan sta cercando anche di ammodernare la rete elettrica e aumentare la produzione di energia rinnovabile. Proprio in un’ottica di miglioramento della vita dei cittadini afgani e per promuovere la crescita economica del Paese, l’azienda elettrica statale ha intrapreso quattro nuovi progetti per nuova capacità rinnovabile, che saranno sviluppati unitamente a investitori privati e all’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale. Grazie a un investimento di 160 milioni di dollari nelle regioni di Kabul, Balkh e Herat, si prevede di poter aggiungere 110 MW di energia green alla rete elettrica. “L’energia è l’infrastruttura delle infrastrutture – ha dichiarato il presidente afgano Ashraf Ghani – e vogliamo che il Paese diventi un produttore di energia rinnovabile”. Attualmente, con solo 400 MW di capacità di generazione di energia idroelettrica, l’Afghanistan importa 1,2 GW di elettricità da Iran, Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan.

  • Un nuovo hub di ricerca in Vietnam per le smart city

    L’azienda giapponese Fujikin Incorporated ha ottenuto l’autorizzazione dalle autorità della città vietnamita di Dà Nẵng, una delle cinque città più popolose del Paese, per la realizzazione di un Centro di ricerca e sviluppo. Con un investimento previsto di 35 milioni di dollari, l’hub sarà costruito nell’area di Da Nẵng High-Tech Park, e svilupperà nanotecnologie e tecnologie informatiche per le città intelligenti, tecnologie per utilizzare l’idrogeno in ambito energetico, oltre ad apparecchiature mediche, robot, strutture per l’intelligenza artificiale. Fujikin Incorporated ha inoltre siglato un accordo di formazione delle risorse umane con il Dà Nẵng College for Science and Technology dell’Università di Dà Nẵng per fornire addetti al Fujikin Dà Nẵng R&D Center. Il progetto, che coinvolgerà anche il vincitore del premio Nobel per la fisica 2014 Hiroshi Amano, sarà il primo centro di ricerca e sviluppo di Fujikin in Vietnam. Il parco hi-tech, che si estende su un’area di 1.100 ettari, ha attirato altri 22 progetti per un valore di 400 milioni di dollari da investitori esteri, tra cui il produttore statunitense di componenti aerospaziali Universal Alloy Corporation (UAC), e 274 milioni di dollari da investitori nazionali.

  • Costa Rica paradiso anche per le rinnovabili

    Purtroppo i Paesi dell’America Latina sono spesso al centro delle cronache per le crisi economico-sociali e l’instabilità politica, ma c’è anche chi può essere considerato un esempio virtuoso, almeno in campo energetico. È il caso del Costa Rica, che ha investito molto sullo sviluppo di un sistema energetico basato sulla sostenibilità e negli ultimi tre anni ha raggiunto l’importante traguardo di 300 giorni consecutivi - nel 2018 ben 312 - di funzionamento del proprio sistema elettrico esclusivamente grazie alle fonti rinnovabili. Secondo i dati dell’ICE - Instituto Costarricense de Electricidad, la produzione di energia rinnovabile copre il 99,6 per cento del fabbisogno elettrico del Paese; di questo, il 78,3 per cento proviene dall’idroelettrico, il 10,3 dell’energia eolica, il 10,2 per cento dalla geotermia e lo 0,8 da solare e biomasse. Il Presidente Carlos Alvarado Quesada ha dichiarato di voler bandire i combustibili fossili partendo dal settore dei trasporti, che dovrà fare a meno di benzina e diesel entro le celebrazioni dei 200 anni di indipendenza, in programma nel 2021. Recentemente è stato inoltre inaugurato un nuovo impianto geotermico, il settimo nel Paese, con una generazione annua prevista di 410 GWh.

  • Passi da gigante per le FER anche in Australia

    Con il Renewable Energy Target (RET) il governo australiano ha previsto che almeno 33.000 GWh di elettricità provengano da fonti rinnovabili entro il 2020. Inoltre, per mantenere gli impegni presi a Parigi con la COP21, l’Australia ha stanziato 3,5 milioni di dollari, attraverso il Climate Solution Found, per raggiungere l’ambizioso obiettivo di arrivare entro il 2030 al 50 per cento di energia prodotta da FER. E gli ultimi dati divulgati sembrano confermare che i risultati raggiunti vanno ben oltre le aspettative e superano di molto i target fissati. Nell’ultimo Renewables Report della società di consulenza Green Energy Markets si legge infatti che nel Paese sono quasi 40.000 ogni anno i GWh prodotti da fonti rinnovabili, una quantità ben al di sopra dell’obiettivo 2020 del Governo. In aggiunta, sono in fase di sviluppo altri progetti che, una volta completati, potrebbero portare la produzione da rinnovabili a 146.000 GWh l’anno entro il 2030, il 50 per cento del fabbisogno elettrico australiano. Il Report evidenzia inoltre che a fine novembre saranno installati oltre 18.000 sistemi solari sul tetto, che produrranno energia pari al consumo di oltre 31.000 abitazioni, superando il record stabilito nel giugno 2012, quando gli incentivi governativi erano più alti. La crescita delle rinnovabili ha avuto anche un risvolto positivo in campo occupazionale, con oltre 85.000 nuovi posti di lavoro creati negli ultimi 12 mesi.

  • Addio al carbone: in Macedonia del Nord inizia la conversione a gas

    La centrale a carbone REK Bitola, con una capacità di 675 MW e una produzione annua di 4.600 GWh, rappresenta oggi il 75 per cento della produzione di elettricità della Macedonia del Nord ed è quindi impensabile che la sua trasformazione possa avvenire nell’immediato. Il governo del piccolo Stato - poco più di 2 milioni di abitanti - ha dato il via libera alla riconversione della prima unità dell’impianto, un passo importante che dà seguito alla nuova Strategia di sviluppo energetico 2020-2040 adottata nel gennaio di quest’anno e che prevede, tra l’altro, l’abbandono totale dell’uso della lignite. La società energetica nazionale Elektrani na Severna Makedonija (ESM) ha infatti previsto la conversione a gas entro 5 anni, per procedere poi gradualmente alla riconversione delle altre unità dell’impianto. Una volta completata, la centrale a gas avrà una capacità di 250 MW. “La nostra società – ha affermato Vasko Kovachevski, amministratore delegato di ESM – sta inoltre sviluppando nuovi progetti di impianti fotovoltaici e idroelettrici in accordo con la strategia nazionale di decarbonizzazione”. Dopo il parco eolico di Miravci, installato nel 2018 e composto da 15 turbine per una capacità installata totale di 50 MW, ESM sta implementando quattro impianti fotovoltaici da 50 MW ciascuno, mentre il governo ha annunciato una nuova asta per tre nuovi parchi eolici per un totale di 100 MW. “Il nostro governo – ha dichiarato Zoran Zaev, primo ministro della Macedonia del Nord – sta inoltre valutando l’ipotesi di partecipare con la Grecia allo sviluppo di un nuovo terminale di gas naturale liquefatto ad Alessandropoli, che potrebbe aiutare a coprire il nostro deficit energetico”. Nel 2018 la produzione totale di elettricità è stata di 5.447 GWh mentre altri 2.297 GWh sono stati importati per soddisfare la domanda interna.

  • Burkina Faso, l’accesso all’energia passa dal sole

    Uno dei problemi che, con grandi sforzi, gli Stati africani stanno cercando di risolvere è quello di rendere l’energia accessibile a tutti, migliorando le strutture e costruendo nuovi impianti per la produzione di energia rinnovabile. Nello stato sub-sahariano del Burkina Faso è stata avviata la costruzione di un nuovo parco solare da 30 MW a Nagreongo, nella provincia di Oubritenga. L’impianto, che si svilupperà su un’area di 50 ettari, sarà costruito dalla francese Green Yellow in collaborazione con la società locale Africa Energy Coopération (AEC) e genererà 50 GWh di elettricità l’anno, consentendo di risparmiare oltre 27.000 tonnellate di anidride carbonica. Nel parco solare è prevista l’installazione di 70.000 pannelli e la realizzazione di una linea di trasmissione aerea di 21 chilometri (33 kV) per trasportare la produzione alla sottostazione più vicina. “Dai 325 MW del 2015 – ha dichiarato Bachir Ismaël Ouedraogo, Ministro dell’Energia del Burkina Faso – siamo passati a una fornitura energetica di quasi 800 MW nel 2020, con un contributo delle energie rinnovabili passato dal 16,87 per cento nel 2018 al 18,36 per cento nel 2019”. Il Paese sta sviluppando altri 16 progetti fotovoltaici, per contribuire ad aumentare l’approvvigionamento energetico del Paese.

  • Luce e gas, chi consuma è sempre l’ultimo a sapere!

    Tutto il mondo è paese. Un proverbio che sembra essere vero anche nel settore dell’energia e, più in particolare, in quello delle bollette. A fronte di un rapido sondaggio tra amici e conoscenti - privo dunque di qualunque valore statistico - alla domanda “qual è il tuo fornitore di energia?” (o ancora meglio, a chi paghi la bolletta?) 9 interpellati su 10 rispondono citando un nome, preceduto da qualche prudente “credo sia” o “forse è”. Ma se, perfidamente, si domanda “ma sei sul mercato libero o ancora in Maggior tutela?”, apriti cielo! Praticamente nessuno sa di che cosa si stia parlando. Sembra sia così anche in Spagna, stando ai dati elaborati dalla Commissione nazionale dei mercati e della concorrenza (CNMC), l’ente pubblico iberico - indipendente dal governo e soggetto al controllo parlamentare - chiamato a promuovere e preservare il corretto funzionamento di tutti i mercati nell’interesse di consumatori e imprese. Tre famiglie spagnole su quattro, infatti, non sono consapevoli della differenza tra mercato libero e regolamentato nel settore energetico, e sei su dieci non sono nemmeno in grado di rispondere sul tipo di fornitura che hanno in essere. Questo secondo i risultati del CNMC Household Panel, l’indagine semestrale che ha coinvolto 4.878 famiglie (9.109 individui). Purtroppo gli ultimi dati disponibili si riferiscono all’anno passato (il sondaggio è stato effettuato nel secondo trimestre 2019), anche se è ragionevole pensare che la situazione non sia molto cambiata; il 2020 è stato a dir poco particolare e le questioni energetiche non sono state proprio al centro dell’attenzione e della consapevolezza dei consumatori spagnoli. Entrando nel particolare, il 77 per cento degli interpellati ignora la differenza tra mercato tutelato e libero nella fornitura dell’elettricità; dato che scende – seppur di poco – al 74 per cento per quanto riguarda il gas. E come conseguenza, non conoscendo l’esistenza di queste due tipologie, la maggioranza delle famiglie spagnole non sa di che genere sia il contratto stipulato per la propria fornitura di elettricità e gas naturale. Alla domanda diretta sul tipo di approvvigionamento elettrico, infatti, il 28 per cento degli intervistati dichiara di essere nel mercato regolamentato, a fronte di un 8 per cento che si colloca nel mercato libero. La restante grossa fetta, il 64 per cento, sa di non sapere. Per il gas i numeri si discostano di poco, anche se la percentuale di coloro che ammettono di non sapere sale al 70 per cento (con il 23 per cento che si autodichiara regolamentato e il restante 7 per cento libero).

  • Purché dal lockdown non si passi al… blackout!

    Con il DPCM del 3 novembre, che conferma alcune limitazioni agli spostamenti in Italia e dall’estero, il MiSE segnala che nel settore energetico potrebbero ripresentarsi le criticità già emerse nei primi mesi di emergenza sanitaria. La nuova ondata del Covid-19, con un incremento della circolazione del virus in tutta la Penisola, ha portato il Governo ad adottare le iniziative più opportune per contrastare il dilagare dei contagi; iniziative che, generalmente, non limitano la mobilità connessa alla prestazione di servizi pubblici essenziali, ma che implicano comunque l’osservanza delle disposizioni riguardanti la sorveglianza sanitaria. La Direzione generale per le infrastrutture e la sicurezza dei sistemi energetici del MiSE - guidata dall’ingegner Gilberto Dialuce - ha così voluto nuovamente segnalare alle Amministrazioni competenti che le tempistiche della sorveglianza sanitaria e dell’isolamento fiduciario risultano difficilmente compatibili con quelle utili per lo svolgimento delle attività di manutenzione del settore elettrico (uno dei servizi “essenziali” per eccellenza) dove sovente, per realizzare interventi di manutenzione volti proprio a garantire la continuità del servizio, è necessario avvalersi di figure tecniche altamente specializzate provenienti anche dall’estero. Il MiSE ha quindi segnalato al Ministero della Salute la necessità di attribuire ai lavoratori del settore energetico un canale prioritario di accesso alla campagna vaccinale antinfluenzale e allo svolgimento dei tamponi e dei test sierologici, così da contrarre anche le tempistiche del periodo di quarantena precauzionale. Contestualmente, alle società energetiche è stato chiesto di avviare per il personale addetto alle sale controllo, ai centri di dispacciamento e agli impianti offshore che devono funzionare in continuo, una campagna di vaccinazione antinfluenzale e screening periodici con tamponi e test antigenici veloci, così da poter costituire gruppi di lavoratori in grado di assicurare con certezza la continuità del servizio nei punti nevralgici del sistema. Infine, poiché le nuove limitazioni potrebbero rendere meno agevoli le turnazioni, il Ministero raccomanda alle aziende una adeguata organizzazione e pianificazione dell’orario di lavoro, che consenta il mantenimento delle operazioni di gestione, manutenzione e intervento in caso di guasti, così da assicurare la continuità del servizio in sicurezza.

  • Stop a 8 GW di carbone nelle Filippine

    Se Giappone e Corea del Sud hanno già espresso la loro intenzione di diventare carbon neutral, e auspicando che la Cina mantenga l’impegno almeno al 2060, anche le Filippine fanno un primo importante passo verso la sostenibilità ambientale. Il governo, attraverso il segretario all’energia Alfonso Cusi, ha infatti annunciato durante la Singapore International Energy Week una moratoria nella costruzione di centrali elettriche a carbone, che mette fine a 8 di 12 GW di progetti in fase di pre-autorizzazione. “La decisione del Governo delle Filippine - ha dichiarato Sara Jane Ahmed, analista di finanza energetica dell’Istituto per l’Economia e l’Analisi finanziaria (IEEFA) - rappresenta una indicazione precisa dell’impegno del Paese a costruire un futuro energetico resiliente e più competitivo in termini di costi, passando a risorse energetiche pulite e tecnologie verdi”. Attualmente le Filippine sono fortemente dipendenti dal carbone: secondo i dati del Dipartimento dell’energia del Paese, nel 2019 ben il 49 per cento del fabbisogno è stato soddisfatto da questo combustibile, seguito dalla geotermia - Manila è il secondo produttore al mondo dopo gli Stati Uniti – che insieme all’idroelettrico ha coperto il 30 per cento, e quindi da gas e petrolio con il 19 per cento. Fermi all’uno per cento sia il solare che l’eolico. Con una rete energetica particolarmente rigida che dipende fortemente dalle grandi centrali a carbone per fornire il carico di base, il phase out sarà comunque particolarmente difficile e costoso.

  • Petrolio, domanda in calo... ma non è la fine

    In linea con quanto pubblicato nell’ultimo World Energy Outlook della IEA, anche la recente analisi della società di consulenza energetica indipendente Rystad Energy rivede in modo significativo le previsioni sulla domanda di petrolio a lungo termine. Si prevede infatti che la persistenza della pandemia e la conseguente crisi economica, le restrizioni nei collegamenti e allo stesso tempo l’accelerazione verso la transizione energetica possano determinare un calo della domanda di petrolio nel 2020, attestandosi a 89,3 milioni di barili al giorno, rispetto ai 99,6 milioni di barili al giorno nel 2019, in una situazione pre-crisi. Sempre secondo questa analisi, la domanda potrebbe tornare a 94,8 milioni di barili/giorno nel 2021, anche se la lenta ripresa dovrebbe influenzare in modo permanente i livelli della domanda globale di petrolio, riducendo di almeno 2,5 milioni di barili/giorno le previsioni fatte prima del Covid-19. E guardando più in casa nostra, la transizione energetica, più della pandemia, ha già fatto la sua prima vittima: dopo 72 anni, nel silenzio mediatico, l’Unione Petrolifera ha cambiato nome, ribatezzandosi Unem (Unione energie per la mobilità). Un silenzio, come sottolinea Giuseppe Gatti nel suo editoriale su Nuova Energia, che è “testimonianza di come l’oil sia ormai considerato morto e defunto”. Ma, evidenzia sempre Gatti “è una fuga in avanti che ignora barriere tecnologiche ancora da superare come economics che non tornano”.

  • COVID-19, in che misura il blocco delle attività ferma l’inquinamento?

    Il satellite Copernicus Sentinel-5P dell’ESA ha recentemente fotografato l’inquinamento atmosferico in Europa e Cina, dove si stanno implementando misure rigorose per frenare la diffusione dell’epidemia di Coronavirus. Come era prevedibile, la mappatura ha rilevato un calo significativo delle concentrazioni di biossido di azoto in coincidenza con le misure di quarantena. I ricercatori del Royal Netherlands Meteorological Institute (KNMI) hanno esaminato i dati forniti dalle immagini del satellite dal 14 al 25 marzo 2020, confrontandoli con la media mensile del 2019. “Sono state scelte queste date - spiega Henk Eskes di KNMI - perché le concentrazioni di biossido di azoto cambiano di giorno in giorno in relazione alla variabilità meteorologica. Non è dunque possibile trarre conclusioni sulla base di dati relativi a un solo giorno”. La chimica nella nostra atmosfera non è lineare e il calo percentuale delle concentrazioni può differire dal calo reale delle emissioni. Per quantificarle sulla base di osservazioni satellitari sono necessari modelli di chimica atmosferica che spiegano i cambiamenti giornalieri del tempo, in combinazione con tecniche di modellazione inversa. Il team KNMI - in collaborazione con scienziati di tutto il mondo - sta lavorando a una analisi più dettagliata utilizzando dati del suolo e meteorologici per interpretare le concentrazioni osservate e fornire una stima quantitativa dei cambiamenti nelle emissioni dovuti ai trasporti e all’industria.

  • Lo sviluppo delle rinnovabili può minacciare l’habitat naturale

    Un team di ricerca dell’Università del Queensland, in Australia, ha mappato la posizione nel mondo delle strutture fotovoltaiche, eoliche e idroelettriche. Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Global Change Biology, ha rilevato che più di 2.000 impianti di energia rinnovabile, principalmente situati in Europa occidentale e nei Paesi sviluppati, sono stati costruiti in aree di rilevanza ambientale e minacciano gli habitat naturali di specie vegetali e animali. José Rehbein, a capo del team di ricerca e docente della School of Earth and Environmental Sciences dell’Università del Queensland, ha dichiarato di essere allarmato dai risultati. Anche perché, oltre alle 2.200 strutture già in funzione all’interno di importanti aree di biodiversità, ne sono attualmente in costruzione altre 900. “Le strutture energetiche e le infrastrutture che le circondano, come le strade - ha aggiunto Rehbein - possono essere incredibilmente dannose per l’ambiente naturale e il loro sviluppo non sembra compatibile con gli sforzi in atto per la conservazione della biodiversità”. “Per questo - continua Rehbein - bisognerebbe che si riconsiderassero le strutture che sono attualmente in costruzione in Africa e in Asia”. Lo studio non deve però essere interpretato in chiave anti-rinnovabile perché, affermano i ricercatori, l’energia da FER è cruciale per ridurre le emissioni di carbonio, ma vuole esortare i governi e le industrie a una diversa e più attenta pianificazione. “La chiave - ha dichiarato James Allan, ricercatore dell’Università di Amsterdam e uno degli autori dello studio - è garantire che le strutture per le energie rinnovabili siano costruite in luoghi in cui non danneggiano la biodiversità”.

  • Massachusetts-EPA: le emissioni rinviate a giudizio

    I gas serra inquinano? Sembra una domanda oziosa, la cui risposta non può essere diversa da quella prevista. Eppure negli Stati Uniti è stato necessario arrivare davanti alla Corte Suprema - con il caso Massachusetts versus EPA (2007) - nel quale si è stabilito che, per sostanze che inquinano l’aria, si intendono anche i gas serra. In tale contenzioso, un gruppo di Stati sosteneva che l’Environmental Protection Agency (EPA), non regolamentando le emissioni del settore trasporti, non avrebbe dato attuazione al Clean Air Act (legge del 1967 in base alla quale il controllo dell’inquinamento atmosferico costituisce responsabilità del governo centrale). E proprio la sezione 202 del Clean Air Act dà all’EPA il potere di stabilire standard per la riduzione dell’inquinamento generato dai trasporti. Secondo l’Agenzia governativa, però, i gas serra non rientrerebbero tra le sostanze inquinanti cui il Clean Air Act si riferisce e per questo l’EPA non avrebbe alcun potere nella regolamentazione delle emissioni. La Corte Suprema ha dato ragione ai ricorrenti: i gas serra costituiscono sostanze inquinanti, la cui disciplina rientra senz’altro nelle competenze conferite all’EPA dal Congresso con il Clean Air Act. Pertanto, non solo l’EPA avrebbe potuto disciplinare le emissioni dei trasporti, ma era anche tenuta a farlo ove avesse riscontrato che tali emissioni fossero potenzialmente nocive per la salute umana. Effettivamente, l’EPA nel 2009 ha prodotto uno studio, il cosiddetto Endangerment Finding, che ha definito inquinanti i gas serra e attestato come il cambiamento climatico indotto da tali sostanze sia in grado di mettere seriamente a repentaglio la salute umana, generando ingenti costi per la sanità pubblica. L’Agenzia ha quindi stabilito standard per le emissioni dei veicoli a motore e per il settore elettrico, in base alla sezione 111 del Clean Air Act che richiede di regolare il livello degli inquinanti provenienti da fonti stazionarie, laddove contribuiscano a causare un inquinamento dell’aria tale da mettere a repentaglio la salute pubblica.

  • In Europa (e in Italia).... tira una brutta aria

    Non ci siamo! In questi anni la Commissione Europea ha fatto sforzi tangibili per migliorare la qualità dell'aria. Eppure, siamo ancora lontani da un risultato soddisfacente. Le prossime direttive dovranno essere ancora più severe e ambiziose rispetto a quelle oggi vigenti. A dirlo è la Corte dei Conti europea, che sul tema ha pubblicato il report Inquinamento atmosferico: la nostra salute non è ancora sufficientemente protetta. La Corte, in piena sintonia con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha posto l’accento sui seguenti inquinanti atmosferici, identificati come più nocivi per la salute umana: il particolato (PM), il biossido di azoto (NO2), il biossido di zolfo (SO2) e l’ozono troposferico (O3). L’attenzione “globale” alle emissioni di CO2 ha probabilmente distolto l’interesse da questi inquinanti. La stessa Corte dei Conti è poi giunta alla conclusione “che le azioni dell’UE volte a proteggere la salute umana dall’inquinamento atmosferico non hanno prodotto l’impatto atteso. I considerevoli costi umani ed economici non si sono tradotti in interventi adeguati” e ha “raccomandato alla Commissione di considerare un aggiornamento ambizioso della direttiva sulla qualità dell’aria ambiente, che rimane uno strumento importante per rendere l’aria più pulita”. Il nostro Paese – non certo a sorpresa – è in forte affanno. Le mappe pubblicate dalla European Environmental Agency (Air Quality in Europe 2018) confermano che le maggiori concentrazioni di PM10 e PM2,5 si riscontrano nella Pianura Padana, attorno all’area di Roma e in Polonia (ma in questo caso entra in gioco come causa primaria l’uso del carbone per la generazione elettrica). È la stessa EEA, d’altra parte, a sottolineare come la produzione di particolato sia strettamente legata anche all’uso di biomasse (rinnovabile non vuol necessariamente dire sostenibile!): “Un impatto negativo sulla qualità dell’aria è dovuto al crescente utilizzo di biomasse in impianti non dotati di adeguati sistemi di controllo delle emissioni”. Un concetto ripreso e confermato dalla stessa Corte dei Conti: “La combustione di biomassa legnosa può anche comportare emissioni più elevate di determinati inquinanti atmosferici nocivi. L’uso di caldaie inefficienti alimentate a combustibili solidi aggrava il problema dell’inquinamento atmosferico”. Eppure, si tratta di una fonte spesso incentivata. In questi ultimi anni il legislatore si è concentrato sul settore trasporti, introducendo – anche in ambito locale – restrizioni e limitazioni spesso molto articolate. La stessa attenzione, per ora, non sembra invece aver riguardato il riscaldamento domestico. È ancora la Corte dei Conti a ricordarci: “L’UE ha stabilito norme volte a migliorare l’efficienza di tali dispositivi, norme che entreranno però in vigore solo nel 2022 e per i nuovi dispositivi. La sostituzione di caldaie inefficienti, spesso in abitazioni di famiglie a basso reddito, costituisce una sfida considerevole per le autorità di alcuni Stati membri”. Va per altro ricordato come il ricorso al gasolio (combustibile con livelli di emissioni particolarmente elevati) resta un’opzione tutt’altro che marginale. L’Annual Report dell’Unione petrolifera, pubblicato nel 2019, evidenzia che i consumi di gasolio per riscaldamento nel 2018 hanno raggiunto in Italia 1 milione di tonnellate (sostanzialmente stabili rispetto al 2017).

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